Emergenza onda anomala
di Chiara Tosi
2004.
Una scossa sismica di impressionante potenza, con epicentro al largo dell’isola di Sumatra, colpisce il sud est asiatico, causando un maremoto che inonda le coste di Thailandia, India, Sri Lanka, Indonesia, Malesia e Maldive.
Lo tsunami asiatico provoca oltre 250 mila vittime e danni incalcolabili alle infrastrutture e all’ambiente.
Sono i terremoti con epicentro sottomarino a scatenare gli tsunami, maremoti costituiti da onde gigantesche che si abbattono sulle coste a velocità estremamente elevate.
In realtà, gli tsunami possono essere causati anche da altri tipi di eventi sottomarini, come le frane o le eruzioni di vulcani oceanici.
Il termine tsunami
Il termine tsunami è di origine giapponese e significa “onda di porto”.
L’uso comune del termine giapponese per indicare tale fenomeno si deve alla particolare frequenza con cui si verificano i maremoti nell’arcipelago nipponico, situato in un’area ad elevato rischio sismico.
Spesso lo tsunami viene anche definito “onda di marea”.
E’ utile ricordare che tale denominazione è decisamente errata poiché il processo di origine e formazione di uno tsunami non è in alcun modo correlato con le maree.
Caratteristiche di uno tsunami
Ma quali sono le principali caratteristiche di uno tsunami e per quale motivo questo fenomeno è in grado di provocare conseguenze così devastanti?
La lunghezza d’onda di un maremoto varia tra i 100 e i 700 km, mentre la sua velocità può arrivare a ben 800 km/h.L’altezza dell’onda raramente supera il metro ma lungo le coste, soprattutto negli stretti e nelle baie imbutiformi, aumenta fino a raggiungere proporzioni devastanti (oltre 30 metri).
Quando si abbatte su una zona costiera, lo tsunami è in grado di distruggere interi centri abitati.
Nel caso di terremoti sottomarini, la perturbazione in superficie si propaga sotto forma di onde circolari, un po’ come quando lanciamo un sasso nelle acque di uno stagno.
L’onda, in realtà, è molto bassa, quasi sempre dell’ordine di alcuni centimetri, ma estremamente lunga e quindi il volume e l’energia in gioco sono elevatissimi.
La velocità di propagazione di quest’onda può essere calcolata estraendo la radice quadrata della costante di gravita’ 9.8 (approssimata a 10) moltiplicata per la profondità.
Se consideriamo, ad esempio, una profondità oceanica di 4.000 metri, otterremo una velocita’ pari a 200 m/sec = 720 km/ora. Ciò vuol dire che, per esempio, occorrono due ore perché l’onda arrivi a 1400 km di distanza e 10-12 ore perché questa attraversi l’intero oceano Pacifico.
Ma se l’onda di maremoto è bassa e lunga e quindi caratterizzata da una pendenza molto ridotta, per quale motivo il fenomeno diventa così devastante man mano che ci si avvicina alla linea di costa?
In mare aperto, dove l’acqua è molto profonda, gli tsunami sono a malapena avvertibili e le imbarcazioni non percepiscono in alcun modo gli effetti di tale fenomeno; in prossimità della riva, invece, la profondità oceanica si riduce notevolmente, così come la velocità del fronte d’acqua; il grosso dell’onda, che continua a viaggiare velocemente in acque profonde, tende a compattarsi, aumentando in altezza.
Questo spiega il violento compattamento e l’improvviso, ripido muro d’acqua che si abbatte sulla spiaggia, provocando spesso numerose vittime.
Generalmente, l’arrivo di uno tsunami è preannunciato da un improvviso abbassamento del livello delle acque costiere, seguito a breve dall’onda di tsunami.
La maggior parte dei maremoti si verifica lungo la cosiddetta cintura di fuoco, una fascia altamente sismica, situata lungo i margini dell’oceano Pacifico e lunga circa 38.600 km.
Le aree del nostro pianeta più colpite dai maremoti sono, oltre al Giappone, le coste dell’Alaska, del Sud America e alcuni tratti della California. Gli tsunami sono decisamente più frequenti nell’oceano Pacifico, ma possono colpire anche i paesi costieri altlantici.
Se gli esperti sono a conoscenza di tutte le informazioni riguardanti il processo di origine e formazione del maremoto, risulta decisamente più facile calcolare con precisione quando e dove si abbatterà lo tsunami.
Oggi, grazie agli avanzati sistemi di monitoraggio e sorveglianza dei fenomeni sismici, è possibile prevedere con alcune ore di anticipo l’arrivo di uno tsunami e informare le popolazioni che abitano lungo le coste.
A questo proposito, i tecnici del Pacific Tsunami Warning Center si occupano da diversi anni di localizzare i terremoti sottomarini, stimare le potenzialità di innesco degli tsunami e informare rapidamente le popolazioni in pericolo.
Il Giappone, che dispone di fondi economici e tecnologie certamente rilevanti, possiede ben sei centri per la previsione dei maremoti.
Sono situati a Sapporo, Sendai, Tokyo, Osaka, Fukuoka e Naha.
Queste postazioni sono connesse ad un sofisticatissimo sistema di monitoraggio elettronico che trasmette segnali in continuazione.
I dati vengono diffusi dai mass media, in modo che la popolazione residente nelle zone a rischio possa essere avvisata in tempo.
Nel caso del devastante maremoto che ha colpito il sudest asiatico nel dicembre 2004, è ormai provato che la mancanza di adeguate tecniche di previsione e di opportuni sistemi di informazione della popolazione ha contribuito a rendere ancora più drammatici gli effetti del fenomeno.
L’allarme poteva essere dato in tempo, in modo da riuscire ad evacuare gli abitanti dei villaggi costieri e salvare numerose vite umane.
Negli ultimi decenni, la previsione dei terremoti, dei maremoti e degli tsunami è diventata un obiettivo scientifico di primaria importanza.
Nonostante i numerosi progressi compiuti dai ricercatori, sono necessari ancora molti studi per riuscire a captare con precisione i segnali d’allarme che giungono dalle profondità della Terra.
Siti
PTWC – Pacific Tsunami Warning Center
www.prh.noaa.gov
NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration
www.noaa.gov
Il Primato della mole di uno Tzunami resta però al Vulcano dell’Etna, 8.000 anni fà
“Una frana staccatasi dal fianco orientale provocò una muraglia di
acqua che raggiunse Grecia, Turchia, Siria , Israele ed Egitto
Ottomila anni fa una colossale frana di 35 chilometri cubici di
materiale lavico, circa un decimo del cono sommitale dell’Etna, si
staccò dal fianco orientale del vulcano e si inabissò nel Mare Ionio,
causando uno tsunami a confronto del quale quello del 2004 nel Sudest
asiatico impallidisce. Probabilmente il più grande tsunami dalla
comparsa dell’uomo sulla Terra. Durante i dieci minuti che la frana
impiegò a fermarsi sui fondali dello Ionio, si sollevò in mare una
muraglia di acqua a forma di anfiteatro alta fino a 50 metri. Poi
l’ondata, viaggiando a velocità fra i 200 e i 700 km all’ora (più
lenta nei fondali bassi e più veloce nel mare profondo), si propagò a
Est, investendo, in rapida successione, Sicilia Orientale, Calabria,
Puglia, Albania, Grecia, Creta, Turchia, Cipro, Siria e Israele; e a
Sud, colpendo l’Africa Settentrionale, dalla Tunisia fino
all’Egitto.
Le prove di quell’antica catastrofe, che spazzò gli insediamenti
preistorici costieri del Mediterraneo Orientale e Meridionale, sono
state da poco scoperte dai ricercatori dell’Istituto nazionale di
geofisica e vulcanologia (Ingv), grazie a una serie di prospezioni
sottomarine e a un’analisi al computer della forma dei depositi
abissali. Lo studio, appena pubblicato sull’autorevole rivista
scientifica internazionale Geophysical research letters col suggestivo
titolo di «Lost tsunami» (lo tsunami dimenticato), è stato
finanziato dal Dipartimento di Protezione Civile e rappresenta anche un
prezioso contributo per valutare il rischio di possibili maremoti nel
Mediterraneo.
«Non sappiamo quale fu la causa di quell’immane collasso: forse
un’eruzione più abbondante del solito, forse un terremoto – spiega
il professor Enzo Boschi, presidente dell’Ingv e autore dello studio
assieme ai geofisici Maria Teresa Pareschi e Massimiliano Favalli-.
Fatto sta che un’enorme quantità di depositi di lava che si erano
accumulati per millenni sul ripido versante dell’Etna affacciato sul
Mare Jonio, precipitò giù e finì in parte sulla costa ai piedi del
vulcano, e per la maggior parte sul fondo del mare, fino a circa 20 km
dalla costa stessa. Le prove del megatsunami e dell’epoca in cui esso
avvenne le abbiamo raccolte lì e nei fondali del Mediterraneo, fra gli
strati dei sedimenti sottomarini. Sull’Etna, quella che oggi
chiamiamo la Valle del Bove, una grande concavità sul fianco orientale
del vulcano che raccoglie gli attuali flussi di lava diretti verso Est,
è la cicatrice residua di quel lontano evento, in gran parte colmata
dalle successive eruzioni».
Ma perché si parla di “tsunami dimenticato”? «Perché le tracce,
sotto forma di depositi caotici scaraventati dalle onde del maremoto
sulle coste del Mediterraneo, oggi non sono più visibili – aggiunge
l’altro autore dello studio, la professoressa Maria Teresa Pareschi
della sede Ingv di Pisa -. Infatti, negli ultimi 8000 anni, il livello
del mare è ovunque salito di diversi metri a causa della
deglaciazione. Quelle che erano le località costiere di allora, ora
sono sommerse». Allo scopo di ricostruire gli effetti del cataclisma,
spiega la Pareschi, sono stati necessari due tipi di ricerche: «Da un
lato una campagna di prospezioni sismiche, con terremoti artificiali
effettuati nel Mare Jonio di fronte all’Etna, che ci ha permesso di
ricostruire i profili dei detriti franati giù e di concludere che i
volumi del materiale oggi sommerso corrispondono a quel che si staccò
dal monte, formando la Valle del Bove. Dall’altro una simulazione
dello tsunami al computer, grazie alla quale abbiamo potuto ricostruire
sia le modalità di propagazione delle onde di maremoto, sia le
perturbazioni risentite fin negli abissi, dove i sedimenti che
giacevano sul fondo del mare, furono violentemente sconvolti, assumendo
un configurazione caratteristica. Analizzando poi le attuali carte
batimetriche, cioè della topografia del fondo marino, abbiamo
ritrovato proprio quel tipo di configurazione descritta dalla nostra
simulazione al computer».
Ma eccola la simulazione del «Lost tsunami», un’animazione
tridimensionale a colori, che i ricercatori ci illustrano mentre le
immagini scorrono su un grande schermo nei laboratori Ingv di Roma.
Mostra, innanzitutto, la muraglia d’acqua che, pochi minuti dopo il
grande “splash”, si abbatte sulla costa orientale della Sicilia:
Catania, Siracusa e Messina, senza passare praticamente nel Tirreno
grazie allo sbarramento dello Stretto. Quindi, dopo un quarto d’ora,
viaggiando nello Jonio, raggiunge la Calabria, dove le onde sono ancora
alte 40 metri. Fra una e due ore dopo tocca alle zone costiere
dell’Albania e della Grecia di essere sommerse da 10-15 metri
d’acqua. Due-tre ore dopo è la volta della Libia, della Tunisia e
dell’Egitto, raggiunte da ondate di 8-13 metri. Tre-quattro ore dopo,
vengono inondate le spiagge del Libano, Israele e Siria, ma stavolta
con altezze dell’onda più modeste (si fa per dire), attorno a 4
metri. A quei tempi la civilta’ neolitica era fiorente nella
Mesopotamia (fra il Tigri e l’ Eufrate), con molti villaggi dediti
all’agricoltura e all’allevamento del bestiame; ma ancora diradata
nel Mediterraneo. Tuttavia, sulle sponde del Vicino Oriente e
dell’Africa Settentrionale dovevano esistere diversi insediamenti
costieri che furono spazzati via dalle ondate. «Proprio in Israele
c’è, secondo noi, l’unica testimonianza tuttora emersa del
disastroso impatto costiero dello tsunami: il villaggio neolitico di
Atlit-Yam che, come risulta dagli scavi archeologici, fu abbandonato
improvvisamente – riferisce la Pareschi, che ora sta estendendo
l’appassionante ricerca ad alcuni aspetti paleoambientali -».
Una ricaduta storica della nostra ricerca consiste nell’aver provato
che alcuni depositi sottomarini del Mediterraneo Orientale, prima
attribuiti a un’eruzione del vulcano Santorini, in Grecia, sono
invece dovuti al collasso dell’Etna di 8000 anni fa. E perché no, lo
stesso mito di Atlandide, la misteriosa isola inghiottita dalle onde di
cui parla Platone, potrebbe essere nato dal megatsunami dell’Etna”.
Il passo successivo che i ricercatori dell’Ingv intendono compiere è
di verificare se le mega-frane dell’Etna in grado di suscitare
maremoti hanno, come si sospetta, una certa periodicità. La caccia
alle tracce sotto forma di particolari depositi terrestri e sottomarini
è aperta: «Con lo scopo di essere consapevoli di eventuali rischi
ricorrenti e di allestire per tempo adeguate misure di controllo e di
prevenzione», conclude il professor Boschi. ,,
Articolo di Franco Foresta Martin del 2 dicembre 2006
Commento di rdroma — 21 Maggio 2009 @ 12:57 PM |